IL QUARTO FIGLIO
Tao Chi'en non aveva sempre avuto quel nome. A dire il vero non ne aveva avuto uno fino a undici anni; i suoi genitori erano troppo poveri per potersi occupare di dettagli come questo: lui era semplicemente il Quarto Figlio. Era nato nove anni prima di Eliza, in un villaggio della provincia di Kuangtung, a un giorno e mezzo di strada a piedi dalla città di Canton. Discendeva da una famiglia di guaritori. Per molte generazioni gli uomini della sua stirpe si erano trasmessi di padre in figlio conoscenze sulle piante medicinali, sull'arte di estrarre umori cattivi, sulla magia con cui spaventare gli spiriti malvagi e sulla capacità di regolare l'energia, il qi. L'anno in cui nacque il Quarto Figlio, la famiglia si trovava nella miseria più profonda, avendo dovuto lasciare la terra nelle mani di usurai e biscazzieri. Gli ufficiali dell'Impero che riscuotevano le tasse, oltre a incassare commissioni illegali e tangenti, tenevano per sé il denaro e poi applicavano nuovi tributi per occultare i loro futti. La famiglia del Quarto Figlio, come la maggior parte dei contadini, non era in grado di pagare. Se riuscivano a salvare dai mandarini qualche moneta delle loro magre entrate, le perdevano immediatamente al gioco, uno dei pochi divertimenti alla portata dei poveri. Si poteva scommettere alle corse dei ranocchi e delle cavallette, ai combattimenti di scarafaggi o al fan tan, e a molti altri giochi popolari.
Il Quarto Figlio era un bambino allegro, cui bastava poco per ridere, ma che dimostrava anche un'incredibile capacità di concentrazione e curiosità di imparare. A sette anni sapeva già che il talento di un buon guaritore consiste nel mantenere l'equilibrio tra yin e yang; a nove conosceva le proprietà delle piante della regione ed era in grado di aiutare suo padre e i fratelli maggiori nella complessa preparazione di impiastri, pomate, tonici, balsami, sciroppi, polveri e pillole della farmacopea contadina. Suo padre e il Primo Figlio viaggiavano a piedi di villaggio in villaggio per offrire cure e rimedi, mentre i figli Secondo e Terzo coltivavano un misero pezzo di terra, l'unico bene della famiglia. Il Quarto Figlio aveva il compito di raccogliere le piante medicinali, attività che svolgeva con piacere perché gli consentiva di vagare nei dintorni senza vigilanza, di inventarsi dei giochi e di imitare il canto degli uccelli. Talvolta, se dopo aver finito le interminabili faccende domestiche le rimaneva un po' di forza, lo accompagnava sua madre, che in virtù della sua condizione femminile non poteva lavorare la terra senza diventare oggetto di scherno da parte dei vicini. Erano sopravvissuti a stento, indebitandosi sempre di più, fino a quel fatale 1834, anno in cui i più crudeli spiriti malvagi si scagliarono contro la famiglia. Per cominciare, una pentola d'acqua bollente si rovesciò sulla sorella minore, di appena due anni, ustionandola dalla testa ai piedi. Le applicarono albumi sulle bruciature e la curarono con le erbe consigliate in questi casi, ma in meno di tre giorni la bambina, vinta dalla sofferenza, morì. La madre non si riprese. Aveva perso altri figli quand'erano piccoli e ognuno di loro le aveva lasciato una ferita nell'anima, ma quest'incidente fu la goccia che fece traboccare il vaso. Iniziò a deperire a vista d'occhio, diventò ogni giorno più magra, la pelle si fece verdognola e le ossa fragili, e i beveroni del marito non riuscirono a rallentare l'inesorabile progredire della sua misteriosa malattia, fino a quando, una mattina, la trovarono rigida, con un sorriso di sollievo e gli occhi in pace, perché finalmente si sarebbe riunita ai suoi bambini morti. Trattandosi di una donna, la cerimonia funebre fu molto semplice. Non fu possibile assoldare un monaco, né offrire il riso ai parenti e ai vicini durante il rito, ma perlomeno ci si premurò di verificare che il suo spirito non si rifugiasse sul tetto, nel pozzo o nelle tane dei topi da dove poi si sarebbe potuto presentare per farli penare. Senza la madre, che con le sue fatiche e la sua inesauribile pazienza aveva mantenuto unita la famiglia, fu impossibile arrestare le calamità. Fu un anno di tifoni, di cattivi raccolti e di carestia, e il vasto territorio della Cina si popolò di mendicanti e banditi. La sorellina di sette anni fu venduta a un agente e non si seppe mai più nulla di lei. Il Primo Figlio, destinato a sostituire il padre nella professione di medico ambulante, venne morsicato da un cane malato e morì poco dopo con il corpo teso come un arco e con la schiuma alla bocca. I figli Secondo e Terzo avevano già raggiunto l'età per lavorare e su di essi ricadde il compito di occuparsi del padre fino a quando fosse rimasto in vita, di espletare i riti funebri alla sua morte e di onorare la sua memoria e quella degli altri avi maschi per cinque generazioni. Il Quarto Figlio non era particolarmente utile e inoltre non si sapeva come nutrirlo, quindi il padre decise di cederlo come schiavo per dieci anni ad alcuni commercianti che erano passati con le loro carovane nei pressi del villaggio. ll bambino aveva allora undici anni.
Grazie a uno di quegli eventi fortuiti che lo avrebbero spinto più di una volta nella vita a modificare la rotta, quel periodo di schiavitù, che sarebbe potuto essere un inferno per il ragazzo, si rivelò, in realtà, molto più proficuo degli anni trascorsi sotto il tetto paterno. Due muli trainavano il carro delle merci più pesanti della carovana. Uno snervante stridio accompagnava ogni giro delle ruote che non venivano oliate con il preciso scopo di spaventare gli spiriti maligni. Per evitare che fuggisse, legarono con una corda a uno degli animali il Quarto Figlio, che piangeva sconsolatamente da quando si era separato dal padre e dai fratelli. Scalzo e assetato, con la borsa delle sue misere proprietà sulla schiena, vide sparire i tetti del villaggio e il paesaggio familiare. La vita nella capanna era l'unica cosa che aveva conosciuto e non era stata brutta; i genitori lo trattavano con dolcezza, sua madre gli raccontava delle storie e qualsiasi pretesto era buono per ridere e per far festa, anche nei momenti di maggiore povertà. Trottava dietro al mulo convinto che ogni passo lo facesse addentrare progressivamente nel territorio degli spiriti maligni e temeva che il cigolio delle ruote e le campanelle appese al carro non fossero sufficienti a proteggerlo. Riusciva a stento a capire il dialetto dei viaggiatori e le poche parole afferrate al volo alimentavano in lui una paura terribile. Girava voce che fossero molti i geni infelici che vagavano per la regione, anime perse di morti che non avevano ricevuto un funerale adeguato. La carestia, il tifo e il colera avevano disseminato la zona di cadaveri e i vivi non erano sufficienti a rendere omaggio a tanti defunti. Fortunatamente, spettri e demoni avevano fama di essere un po' ottusi: non sapevano svoltare e si distraevano facilmente con offerte di cibo e regali di carta. A volte, tuttavia, non c'era nulla che li potesse allontanare e, pronti a guadagnarsi la libertà, potevano materializzarsi assassinando i forestieri o introducendosi nel loro corpo per obbligarli a compiere impensabili misfatti. Procedevano da alcune ore; la calura estiva e la sete erano opprimenti, il ragazzino inciampava a ogni passo e i nuovi padroni impazienti lo spronavano, pur senza cattiveria, con bacchettate sulle gambe. Al tramonto decisero di fermarsi e di accamparsi. Alleggerirono gli animali del carico, fecero un fuoco, prepararono il tè e si divisero in piccoli gruppi per giocare a fan tan e a mah jong. Alla fine qualcuno si ricordò del Quarto Figlio e gli diede una scodella di riso e un bicchiere di tè, su cui lui si avventò con la voracità accumulata in mesi e mesi di fame. Fu allora che vennero sorpresi da un frastuono di ululati e si videro circondati da un gran polverone. Alle grida degli assalitori si aggiunsero quelle dei viaggiatori e il ragazzino, terrorizzato, si trascinò sotto il carro fino a dove glielo consentì la corda a cui era legato. Non si trattava di una legione infernale, come immediatamente fu chiaro, ma di una delle molte bande di briganti che, facendosi beffe degli inefficienti soldati imperiali, infestavano le strade in quei tempi di così profonda disperazione. Non appena i mercanti si furono ripresi dal primo impatto, imbracciarono le armi e affrontarono i fuorilegge in una battaglia di urla, minacce e spari che non durò più di qualche minuto. Quando la polvere si depositò, uno dei banditi era fuggito e gli altri due giacevano a terra feriti. Tolsero loro dal viso i fazzoletti e scoprirono che si trattava di adolescenti vestiti di stracci e armati di bastoni e lance primitive. Procedettero allora a un'immediata decapitazione, per far loro soffrire l'umiliazione di andarsene da questo mondo in pezzi e non interi come vi erano arrivati, e le loro teste impalate vennero collocate sui due lati della strada. Solo quando gli animi si furono tranquillizzati, notarono che un membro della carovana si rotolava a terra con una profonda ferita da lancia nella coscia. Il Quarto Figlio, che era rimasto nascosto sotto il carro paralizzato dal terrore, uscì strisciando dal nascondiglio e rispettosamente chiese agli onorevoli mercanti il permesso di prendersi cura del ferito e, visto che non c'era alternativa, venne autorizzato a procedere. Chiese del tè per poter lavare il sangue, poi aprì la borsa e fece una pallina di bai yao. Applicò la pasta bianca sulla ferita, fasciò stretta la gamba e annunciò senza la minima esitazione che in capo a tre giorni la ferita si sarebbe rimarginata. E così fu. Quell'incidente lo salvò da dieci anni di lavoro come schiavo e dall'essere trattato peggio di un cane, perché, viste le sue capacità, i mercanti a Canton lo vendettero a un noto medico tradizionale nonché maestro agopuntore - uno zhong yi che stava cercando un apprendista. Grazie a quel saggio, il Quarto Figlio apprese le nozioni che il suo rozzo padre mai sarebbe stato in grado di tramandargli.
L'anziano maestro era un uomo placido, dal volto liscio e tondo, voce lenta e mani ossute e sensibili, i suoi strumenti migliori. La prima cosa che fece fu di dare un nome al servitore. Consultò libri di astrologia e indovini per trovare il nome che corrispondeva al ragazzo: Tao. La parola aveva vari significati, quali strada, direzione, senso e armonia, ma soprattutto rappresentava il viaggio della vita. Il maestro gli diede il suo cognome.
"Ti chiamerai Tao Chi'en. Questo nome ti inizia al cammino della medicina. Il tuo destino sarà quello di alleviare il dolore altrui e di raggiungere la saggezza. Sarai uno zhong yi, come me."
Tao Chi'en... Il giovane apprendista accolse il nome con gratitudine. Baciò le mani del padrone e per la prima volta da quando si era allontanato dal focolare sorrise. Quell'istinto allegro che lo faceva ballare dalla contentezza senza motivo tornò a palpitare nel suo petto e il sorriso non lo abbandonò per settimane. Girava per la casa saltando, assaporando il suo nome con godimento, come una caramella in bocca, ripetendolo ad alta voce e sognandolo, fino a quando non si identificò completamente con esso. Il maestro, seguace di Confucio per gli aspetti pratici e di Buddha per quelli ideologici, gli insegnò con mano ferma, ma con grande tenerezza, la disciplina che avrebbe fatto di lui un buon medico.
"Se riuscirò a insegnarti tutto ciò che vorrei, un giorno sarai un uomo illuminato," gli disse.
Sosteneva che riti e cerimonie sono necessari quanto le norme della buona educazione e il rispetto delle gerarchie. Che la conoscenza senza la saggezza serve a poco, che non c'è saggezza senza spiritualità e che la vera spiritualità comprende sempre il servizio agli altri. Come gli spiegò in più di un'occasione, l'essenza di un buon medico si fonda sulla capacità di compassione e sul senso etico, senza i quali la sacra arte della guarigione degenera in mera ciarlataneria. Il sorriso facile del suo apprendista gli piaceva.
"Hai già percorso un bel pezzo della strada della saggezza, Tao. Il saggio è sempre allegro," sosteneva.
Durante tutto l'anno Tao Chi'en si alzava all'alba, come qualsiasi studente, per dedicarsi all'ora di meditazione, di canti e preghiere. Godeva di un unico giorno di riposo per la celebrazione dell'Anno Nuovo e lavorare e studiare erano le sue due uniche occupazioni. In primo luogo, dovette impadronirsi alla perfezione del cinese scritto, mezzo ufficiale di comunicazione in quell'immenso territorio di centinaia di paesi e lingue. Il maestro era inflessibile in quanto a bellezza e precisione della calligrafia, che distingueva l'uomo raffinato dall'imbroglione. Insisteva anche nello sviluppare in Tao Chi'en quella sensibilità artistica che, a suo dire, caratterizzava gli esseri superiori. Come ogni cinese civilizzato, provava un disprezzo profondo per la guerra e manifestava inclinazione, invece, per le arti musicali, pittoriche e letterarie. Al suo fianco Tao Chi'en imparò ad apprezzare il delicato ricamo di una ragnatela perlata di gocce di rugiada alla luce dell'aurora e a esprimere il piacere in ispirate poesie redatte in elegante calligrafia. Stando al maestro, l'unica cosa peggiore del non comporre poesie era comporle male. In quella casa il ragazzo partecipò a frequenti riunioni in cui gli invitati creavano versi sull'ispirazione del momento e ammiravano il giardino mentre lui serviva il tè ascoltando meravigliato. Si poteva raggiungere l'immortalità scrivendo un libro, soprattutto di poesie, diceva il maestro, che ne aveva scritti diversi. Alle rozze conoscenze pratiche che Tao Chi'en aveva acquisito osservando lavorare il padre, aggiunse l'impressionante mole teorica dell'ancestrale medicina cinese. Il giovane apprese che il corpo umano è composto da cinque elementi, legno, fuoco, terra, metallo e acqua, a loro volta associati a cinque pianeti, cinque condizioni atmosferiche, cinque colori e cinque note. Attraverso l'uso adeguato delle piante medicinali, dell'agopuntura e dei salassi, un buon medico poteva prevenire e curare diverse malattie e controllare l'energia maschile, attiva e leggera, e quella femminile, passiva e scura, yin e yang. Tuttavia obiettivo di quell'arte non era tanto eliminare le infermità quanto mantenere l'armonia. "Devi scegliere i tuoi alimenti, orientare il tuo letto e condurre le meditazioni tenendo presente la stagione dell'anno e la direzione del vento. Così sarai sempre in risonanza con l'universo," gli consigliava il maestro.
Lo zhong yi era contento del suo destino, anche se l'assenza di discendenti minava la serenità del suo spirito. Non aveva avuto figli, nonostante le erbe miracolose ingerite regolarmente nel corso dell'intera vita per pulire il sangue e rinvigorire il membro, e nonostante gli incantesimi e i rimedi applicati alle sue due spose morte in gioventù, come anche alle numerose concubine che le avevano seguite. Doveva accettare con umiltà che non era stata colpa di quelle donne volonterose, bensì dell'apatia del suo liquido virile. Nessuna delle cure per la fertilità che gli erano servite per aiutare i suoi pazienti aveva funzionato, e alla fine si era rassegnato al fatto innegabile che i suoi reni fossero secchi. Smise di castigare le sue donne con inutili richieste e godette pienamente con loro, secondo i precetti dei bei libri del guanciale della sua collezione. L'anziano si era comunque allontanato da tali piaceri molto tempo prima, più interessato ad acquisire nuove conoscenze e a esplorare l'angusto sentiero della saggezza, e si era disfatto a una a una delle concubine, la cui presenza lo distraeva dagli impegni intellettuali. Non aveva bisogno di avere davanti agli occhi una ragazza per descriverla in elevate poesie, era sufficiente il ricordo. Anche se aveva desistito dal progetto di avere figli propri, doveva comunque pensare al futuro. Chi lo avrebbe aiutato nell'ultima tappa e nell'ora della morte? Chi avrebbe pulito la sua tomba e venerato la sua memoria? In precedenza aveva addestrato diversi apprendisti e con ognuno di essi aveva alimentato la segreta ambizione di adottarlo, ma poi nessuno si era rivelato degno di tale onore. Tao Chi'en non era più intelligente o più intuitivo degli altri, ma albergava un'ossessione per l'apprendimento che il maestro aveva immediatamente riconosciuto, poiché identica alla sua. Inoltre era un ragazzino dolce e divertente, cui era facile voler bene. Durante gli anni di convivenza, gli si affezionò tanto da arrivare spesso a chiedersi com'era possibile che non fosse suo figlio di sangue. Tuttavia la stima per l'apprendista non lo accecava; sapeva per esperienza che i cambiamenti dell'adolescenza solitamente sono molto profondi e non poteva prevedere che tipo di uomo sarebbe stato. Recita il proverbio cinese: "Se sei brillante da giovane, non è detto che da adulto tu sia in grado di fare qualcosa". Aveva paura di sbagliarsi, come gli era già successo, e preferiva attendere con pazienza che si rivelasse la vera natura del ragazzo. Nel frattempo l'avrebbe guidato, come faceva con i giovani alberi del giardino, per aiutarlo a crescere dritto. Perlomeno impara in fretta, pensava l'anziano medico, mentre calcolava quanti anni di vita gli rimanessero. Stando ai segni astrali e alla minuziosa osservazione del proprio corpo, non avrebbe avuto il tempo per addestrare un altro apprendista.
Ben presto Tao Chi'en fu in grado di scegliere gli ingredienti al mercato e nei negozi di erbe, di mercanteggiare il giusto e di preparare da solo i rimedi. Osservando il medico lavorare, giunse a conoscere gli intricati meccanismi dell'organismo umano, i procedimenti con cui rinfrescare chi soffriva di febbre e i temperamenti focosi, offrire calore a chi soffriva del freddo precoce della morte, stimolare i succhi negli sterili e asciugare quanti erano stremati dai flussi. Compiva lunghe escursioni nei campi in cerca delle piante migliori e nel momento più fertile della loro crescita, poi le trasportava avvolte in panni umidi per mantenerle fresche durante il tragitto verso la città. Quando compì quattordici anni, il maestro lo ritenne ormai capace di esercitare e iniziò a mandarlo regolarmente a curare prostitute, con l'ordine perentorio di astenersi dal commercio con loro perché, come lui stesso poteva verificare esaminandole, avevano la morte addosso.
"Le malattie dei bordelli uccidono più persone dell'oppio e del tifo. Ma se ti attieni ai tuoi doveri e impari velocemente, a tempo debito ti comprerò una ragazza vergine," gli promise il maestro.
Tao Chi'en aveva patito la fame da bambino, ma il suo corpo si era comunque allungato fino a raggiungere un'altezza superiore a quella di qualsiasi altro membro della sua famiglia. A quattordici anni non provava attrazione per le ragazze in affitto, ma solo curiosità scientifica. Erano così diverse rispetto a lui e vivevano in un mondo talmente remoto e segreto che non poteva considerarle realmente umane. Più tardi, quando l'improvviso agguato della natura gli fece perdere il senno e fu costretto ad andare in giro come un ubriaco che inciampa nella propria ombra, il precettore deplorò di essersi disfatto delle concubine. Niente distraeva tanto un bravo studente dalle sue responsabilità quanto l'esplosione delle forze virili. Una donna l'avrebbe tranquillizzato e, già che c'era, gli avrebbe offerto conoscenze pratiche, ma siccome l'idea di comprarne una gli risultava fastidiosa - si trovava a proprio agio in quell'universo esclusivamente maschile - per calmare gli ardori il maestro obbligava Tao a bere infusi. Lo zhong yi non ricordava l'uragano delle passioni carnali e, con le migliori intenzioni, diede da leggere all'allievo i libri del guanciale della sua biblioteca come parte del programma educativo, senza valutare l'effetto sfibrante che avevano sul povero ragazzo. Gli fece memorizzare tutte le duecentoventidue posizioni dell'amore e i loro poetici nomi e pretese che poi fosse in grado di riconoscerle, senza esitate, nelle splendide illustrazioni dei suoi libri, attività che contribuiva non poco a distrarre il giovane.
Tao Chi'en familiarizzò a tal punto con Canton che arrivò a conoscerla come il suo piccolo villaggio. Gli piaceva quella vecchia città cinta da mura, caotica, con le strade storte e i canali, in cui i palazzi e le capanne si mescolavano in totale promiscuità e in cui c'era gente che viveva e moriva nelle barche sul fiume, senza aver mai calpestato la terraferma. Si abituò al clima umido e caldo della lunga estate sferzata dai tifoni, ma gradevole in inverno, da ottobre a marzo. Canton era chiusa ai forestieri, benché spesso entrassero di sorpresa pirati con bandiere di altre nazioni. Esistevano alcuni spazi per il commercio in cui gli stranieri potevano scambiare la merce solo da novembre a maggio, ma le imposte, le ordinanze e gli ostacoli erano talmente numerosi che i mercanti internazionali preferivano stabilirsi a Macao. La mattina presto, quando Tao Chi'en si dirigeva al mercato, era solito trovare bambine appena nate gettate in strada o che galleggiavano nei canali, spesso deturpate dai morsi dei cani e dei topi. Nessuno le voleva, si potevano buttare via. Per quale motivo allevare una figlia che non valeva nulla e il cui destino era andare a fare la serva alla famiglia del marito? "È meglio un figlio deforme che una dozzina di figlie sagge come Buddha," sosteneva un detto popolare. E comunque di bambini ce n'erano troppi e continuavano a nascerne come topi. Bordelli e fumerie d'oppio proliferavano ovunque. Canton era una città popolosa, fiorente e allegra, ricca di luoghi di culto, ristoranti e case da gioco, in cui si celebravano rumorosamente le festività del calendario. Persino le punizioni e le esecuzioni si trasformavano in occasioni di festa. Era immensa la folla che si riuniva per applaudire i boia, con i loro grembiuli insanguinati e le loro collezioni di lame affilate, che mozzavano teste con un unico colpo ben assestato. La giustizia veniva amministrata in modo semplice e spedito, senza possibili appelli né inutili crudeltà, salvo nel caso di tradimento all'imperatore, il peggiore dei crimini, che si pagava con la morte lenta e il confino di tutti i parenti, ridotti in schiavitù. Le colpe minori venivano punite con frustate o con l'applicazione di una placca di legno al collo dei colpevoli per diversi giorni, che così non potevano né riposare, né arrivare alla testa con le mani per mangiare o grattarsi. Nelle piazze e nei mercati facevano sfoggio delle loro arti i narratori di storie che, come i monaci mendicanti, viaggiavano per il paese preservando una millenaria tradizione orale. Giocolieri, acrobati, domatori di serpenti, travestiti, musicisti itineranti, maghi e contorsionisti si davano appuntamento nelle strade, e intanto intorno a loro ferveva il commercio di seta, tè, giada, spezie, oro, gusci di tartaruga, porcellana, avorio e pietre preziose. Verdura, frutta e carne venivano offerte in un disordinato guazzabuglio: cavoli e teneri germogli di bambù insieme a gabbie di gatti, cani e procioni che il macellaio, a richiesta dei clienti, uccideva e scuoiava con un unico colpo. Vi erano lunghi vicoli letteralmente invasi da uccelli, perché in nessuna casa potevano mancare volatili e gabbie, dalle più semplici a quelle di legno fino tempestato d'argento e madreperla. Altre zone del mercato erano riservate ai pesci esotici, che portavano fortuna. Tao Chi'en, sempre curioso, si distraeva osservando e facendo amicizia e poi doveva correre per svolgere le commissioni nel settore in cui si vendevano i prodotti per la sua professione. Poteva individuarlo a occhi chiusi dal penetrante odore di piante, spezie e cortecce medicinali. I serpenti essiccati venivano impilati arrotolati come matasse polverose; rospi, salamandre e strani animali marini pendevano infilzati sulle corde, come collane; grilli e grandi scarabei dai duri carapaci fosforescenti languivano nelle casse; scimmie d'ogni specie attendevano il loro turno per morire; zampe d'orso e d'orangutan, corna d'antilope e di rinoceronte, occhi di tigre, pinne di squali e artigli di misteriosi uccelli notturni venivano comprati a peso.
Tao Chi'en trascorse i primi anni a Canton studiando, lavorando e servendo l'anziano precettore che arrivò a venerare come un nonno. Furono anni felici. Il ricordo della sua vera famiglia sfumò e arrivò a dimenticare i volti del padre e dei fratelli, ma non quello della madre, che gli appariva di frequente. Lo studio ben presto smise di essere un compito per trasformarsi in una passione. Ogni volta che imparava qualcosa di nuovo volava dal maestro per raccontarglielo con eccitazione. "Quanto più imparerai, prima ti accorgerai di quanto poco sai," rideva l'anziano. Di sua iniziativa Tao Chi'en decise di imparare il mandarino e il cantonese, perché il dialetto del suo villaggio risultava insufficiente. Assorbiva il sapere del maestro a una tale velocità che il vecchio era solito accusarlo per scherzo di rubargli perfino i sogni, ma la grande passione per l'insegnamento faceva di lui un uomo generoso. Condivise con il ragazzo tutto ciò che quest'ultimo desiderava sapere, e non solo in materia di medicina ma anche in altri aspetti del suo vasto bagaglio di sapere e della sua raffinata cultura. Benevolo di natura, si mostrava però severo nella critica ed esigente in quanto a impegno perché, come era solito dire, "non mi rimane molto tempo e non posso portarmi all'altro mondo ciò che so: qualcuno lo deve poter usare alla mia morte". Tuttavia lo metteva altresì in guardia dalla cupidigia della conoscenza, che può incatenare un uomo tanto quanto la gola e la lussuria. "Il saggio non desidera nulla, non giudica, non fa progetti, mantiene la mente aperta e il cuore in pace," sosteneva. Quando doveva riprenderlo, veniva pervaso da una tale tristezza che Tao Chi'en avrebbe preferito una bastonatura, ma tale pratica ripugnava al temperamento dello zhong yi, che non consentiva mai alla collera di guidare le proprie azioni. Le uniche occasioni in cui lo colpì cerimoniosamente con una bacchetta di bambù, senza stizza, ma con fermo intento didattico, furono quando venne a sapere per certo che il suo apprendista aveva ceduto alle tentazioni del gioco o aveva pagato per una donna. Tao Chi'en spesso imbrogliava sui conti del mercato per fare scommesse nelle case da gioco, alla cui attrazione non sapeva resistere, o per una breve pausa consolatoria nei bordelli, con lo sconto da studente, nelle braccia di qualcuna delle sue pazienti. Il padrone non tardava a scoprirlo, perché se perdeva al gioco non era in grado di spiegare dove era andato a finire il denaro del resto e se vinceva non era capace di dissimulare l'euforia. Le donne, invece, le odorava sulla pelle del ragazzo.
"Togliti la camicia, dovrò darti qualche vergata e vediamo se capisci una buona volta, figliolo. Quante volte ti ho detto che i peggiori mali della Cina sono il gioco e il bordello? Con il primo gli uomini perdono il frutto del loro lavoro e con l'altro la salute e la vita. Con questi vizi, non sarai mai un buon medico, né un buon poeta."
Nel 1839, quando scoppiò la guerra dell'oppio tra Cina e Gran Bretagna, Tao Chi'en aveva sedici anni. In quel periodo il paese era invaso da mendicanti. Masse umane abbandonavano i campi e apparivano con i loro stracci e le loro pustole nelle città, da cui venivano cacciate a forza, trovandosi quindi obbligate a vagare come branchi di cani famelici per le strade dell'Impero. Bande di fuorilegge e ribelli si battevano con le truppe del governo in un'interminabile guerra di imboscate. Erano tempi di distruzione e saccheggi. I deboli eserciti imperiali, al comando di ufficiali corrotti che ricevevano da Pechino ordini contraddittori, non riuscirono a far fronte alla potente e ben organizzata flotta navale inglese. Non potevano contare sull'appoggio popolare, perché i contadini erano stanchi di vedere i campi distrutti, i villaggi in fiamme e le figlie violentate dalla soldataglia. Nel giro di quasi quattro anni di scontri, la Cina dovette accettare un'umiliante sconfitta e pagare ai vincitori l'equivalente di ventun milioni di dollari, cedere Hong Kong e concedere il diritto a istituire "concessioni", quartieri residenziali tutelati da leggi di extraterritorialità. Lì vivevano gli stranieri, con la loro polizia, i loro servizi, governi e leggi, protetti dalle loro truppe; erano veri e propri stati all'interno del territorio cinese dai quali gli europei controllavano il commercio, specialmente quello dell'oppio. A Canton entrarono soltanto dopo cinque anni, ma nel toccare con mano la degradante sconfitta del suo venerato imperatore e nel vedere l'economia e la morale della patria a pezzi, il maestro di agopuntura decise che non c'era più ragione per continuare a vivere.
Durante gli anni della guerra al vecchio zhong yi si guastò l'anima e la serenità così faticosamente raggiunta nel corso dell'esistenza si perse. Il disinteresse e il distacco dalle questioni materiali si acuirono al punto che quando persisteva nel digiunare Tao Chi'en doveva imboccarlo. Prese a ingarbugliarsi con i conti, e i creditori iniziarono a bussare alla sua porta, ma lui li ignorò dato che tutto ciò che riguardava il denaro gli sembrava un ignominioso gravame dal quale i saggi erano, naturalmente, dispensati. Nella confusione senile di quegli ultimi anni dimenticò le buone intenzioni di adottare l'apprendista e di trovargli una sposa; era talmente offuscato che spesso rimaneva a guardare Tao Chi'en con espressione perplessa, senza riuscire a rammentarne il nome o a collocarlo nel labirinto di volti ed eventi che disordinatamente prendevano d'assalto la sua mente. Ma per decidere i particolari della sua sepoltura le energie non gli mancarono, perché, per un cinese illustre, il proprio funerale è l'evento più importante della vita. L'idea di mettere fine all'avvilimento con una morte elegante gli frullava in testa da tempo, ma attese l'epilogo della guerra con la segreta e irrazionale speranza di vedere il trionfo degli eserciti del Celeste Impero. L'arroganza degli stranieri gli risultava intollerabile, provava un profondo disprezzo per quei selvaggi fan güey, fantasmi bianchi che non si lavavano, bevevano latte e alcol, ignoravano completamente le norme elementari della buona educazione ed erano incapaci di onorare i propri avi nel modo appropriato. Gli accordi commerciali gli sembravano un favore concesso dall'imperatore a quei barbari ingrati che, invece di chinarsi in segno di lode e gratitudine, pretendevano sempre di più. La firma del Trattato di Nanchino fu, per lo zhong yi, il colpo finale. L'imperatore e ogni abitante della Cina, financo il più umile, avevano perduto l'onore. Come si sarebbe mai potuta recuperare la dignità dopo un simile affronto?
L'anziano saggio si avvelenò ingoiando oro. Di ritorno da una delle sue camminate per i campi alla ricerca di piante, il discepolo lo trovò nel giardino, adagiato su cuscini di seta e vestito di bianco in segno di lutto. Di fianco a lui si trovavano il tè ancora tiepido e l'inchiostro del pennello fresco. Su un piccolo scrittoio c'era un verso incompiuto e sulla morbida pergamena si delineava una libellula. Tao Chi'en baciò le mani di quell'uomo che tanto gli aveva dato e poi si trattenne un istante per apprezzare il disegno delle ali trasparenti dell'insetto alla luce del tramonto esattamente come il suo maestro avrebbe desiderato.
Al funerale del saggio intervenne un'immensa folla, perché nel corso della sua lunga vita aveva aiutato migliaia di persone a vivere in salute e a morire senza angoscia. Gli ufficiali e i dignitari del governo sfilarono con la massima solennità, i letterati recitarono le poesie più belle e le cortigiane si presentarono avvolte nella seta. Un indovino stabilì il giorno propizio per la sepoltura e un artista di oggetti funebri visitò la casa del defunto per fare una copia dei suoi beni. Percorse la proprietà lentamente senza prendere né misure né appunti, ma sotto le voluminose maniche faceva dei segni con l'unghia su una tavoletta di cera; in seguito fabbricò delle miniature di carta della casa, con le stanze e i mobili, oltre agli oggetti preferiti dal defunto, che dovevano essere bruciati insieme a fasci di denaro anch'essi di carta. Nell'altro mondo non doveva mancargli ciò di cui aveva goduto in questo. Il feretro, imponente e decorato come una carrozza imperiale, passò per i viali della città tra due file di soldati in alta uniforme preceduti da cavallerizzi con divise dai brillanti colori e da una banda di musicisti provvisti di cembali, tamburi, flauti, campane, triangoli di metallo e diversi strumenti a corde. Il baccano era insopportabile, come era giusto che fosse per un estinto di tale importanza. Sulla tomba si accumularono fiori, abiti e cibo; furono accese candele e incensi e alla fine furono bruciati il denaro e i numerosi oggetti di carta. L'ancestrale tavoletta di legno rivestita d'oro su cui era inciso il nome del maestro venne collocata sulla tomba per poter accogliere lo spirito mentre il corpo tornava alla terra. Spettava al figlio maggiore ricevere la tavoletta, collocarla in casa sua in un posto d'onore vicino a quelle degli altri antenati maschi, ma il medico non aveva chi potesse espletare tale compito. Tao Chi'en era semplicemente un servo e da parte sua sarebbe stata un'assoluta mancanza d'etichetta offrirsi per farlo. Era sinceramente commosso, nella folla era l'unico le cui lacrime e singhiozzi corrispondevano a un dolore autentico, ma l'ancestrale tavoletta andò a finire nelle mani di un nipote lontano, che avrebbe avuto l'obbligo morale di deporre delle offerte e di pregare davanti a essa ogni quindici giorni e a ogni festività annuale.
Una volta conclusi i solenni riti funebri, i creditori si avventarono come sciacalli sui beni del maestro. Violarono i testi sacri e il laboratorio, misero a soqquadro le erbe, distrussero i preparati medicinali, rovinarono le poesie dall'accurata fattura, si portarono via mobili e oggetti d'arte, calpestarono il bellissimo giardino e fecero piazza pulita dell'antica dimora. Poco prima Tao Chi'en aveva messo in salvo gli aghi d'oro per l'agopuntura, una cassetta di strumenti medici, alcuni rimedi essenziali, nonché un po' di denaro sottratto poco a poco negli ultimi tre anni, cioè da quando il padrone aveva cominciato a perdersi nell'impervietà della demenza senile. Non aveva avuto intenzione di derubare il venerabile zhong yi, che stimava come un nonno, ma di usare quel denaro per alimentarlo, dal momento che vedeva i debiti accumularsi e temeva per il futuro. Il suicidio fece precipitare le cose e Tao Chi'en si ritrovò in possesso di una risorsa insperata. Impossessarsi di quella somma poteva costargli la testa, giacché sarebbe stato considerato un crimine di un inferiore nei confronti di un superiore, ma era certo che nessuno l'avrebbe saputo, salvo lo spirito del defunto, che senz'altro avrebbe approvato l'azione. Non avrebbe forse preferito premiare il suo fedele servo e discepolo piuttosto che saldare uno dei molti debiti ai suoi feroci creditori? Con questo modesto tesoro e un cambio d'abiti puliti, Tao Chi'en scappò dalla città. Lo attraversò fugacemente l'idea di tornare al villaggio natale ma immediatamente la scartò. Per la sua famiglia sarebbe sempre stato il Quarto Figlio e avrebbe dovuto sottostare e ubbidire ai fratelli maggiori. Avrebbe dovuto lavorare per loro, accettare la sposa che gli avessero scelto e rassegnarsi alla miseria. Niente lo spingeva in quella direzione, nemmeno gli obblighi filiali nei confronti del padre e degli avi che ricadevano sui fratelli maggiori. Aveva bisogno di andarsene lontano, dove non lo raggiungesse la lunga mano della giustizia cinese. Aveva vent'anni, gliene mancava uno per compiere i dieci di schiavitù e qualsiasi creditore poteva reclamare il diritto di utilizzarlo come schiavo per quel lasso di tempo.